STORIE

6. Il PILONE CHE SCOMPARSE E RIAPPARSE. E SPARI’ DI NUOVO

I giornalisti neozelandesi lo aspettavano al varco da trent’ anni, il pilone Keith Murdoch. Da quel giorno disgraziato del dicembre 1972, quando si era fatto inghiottire da uno dei posti più inospitali della terra: lo sterminato deserto di sabbia rossa che occupa l’ interno dell’ Australia, dove per compagni di squadra hai aborigeni ubriaconi e minatori svitati. Keith si era andato a seppellire là in fondo perché non era d’ accordo con quello che gli avevano fatto. Lo avevano cacciato dalla nazionale di rugby del suo paese, unico All Black della storia a venire rispedito a casa nel corso di una tourneé, accusandolo di avere preso a cazzotti una guardia in un hotel di Cardiff. Non protestò. Doveva salire sull’ aereo per Auckland, Nuova Zelanda. Invece prese quello per Sydney, Australia, e sparì. Per trent’ anni. È riemerso dall’ outback una manciata di giorni fa, strappato al suo esilio da una storia di sangue. È entrato in un commissariato a Tennant Creek, alle soglie del deserto. Poco dopo ne è uscito. Ha spinto via con una zampata i reporter che gli ostruivano la strada e si è rituffato per sempre nell’ oceano di sabbia rossa. Dicono che era un grizzly con gli short e le ciabatte, enorme come trent’ anni fa, i capelli e la barba ormai bianchi. Il rugby è un gioco duro, e fare il pilone è il ruolo più duro di tutti. Sei lì in prima linea, davanti al nemico, ottocento chili che spingono davanti, ottocento chili che ti spingono da dietro. Keith faceva il pilone. Che fosse forte, spaventosamente forte, lo sapevano tutti, e c’era chi giurava di averlo visto trascinare una macchina su una collina trainandola con una fune stretta tra i denti. Ma si sapeva anche che aveva un caratteraccio. “La maggior parte del tempo Murdoch era amabile”, raccontano adesso quelli che lo conoscevano, “ma sapeva essere anche cupo, e a volte intollerabile. E non sempre aveva la sbronza allegra”. Sull’ opportunità di convocarlo in nazionale i vertici della New Zealand Rugby Union avevano discusso a lungo. Ma alla fine del 1972 gli All Blacks partono per una tourneé in Europa e America, e la presenza di Murdoch è imposta quasi a furor di popolo. Così arriva il maledetto pomeriggio del 2 dicembre 1972. A Cardiff diluvia e fa freddo. All’ Arms Park gli All Blacks incontrano il Galles. In prima linea, con la maglia numero 3, c’ è lui, Keith Murdoch, e questa partita se la ricorderà per tutta la vita. Perché i neozelandesi vincono di un soffio, 19 a 16. E l’ unica meta, la meta della vittoria, la segna lui, il pilone dai baffi neri. La sera, Keith fa quello che qualunque rugbista del mondo farebbe dopo un’ impresa del genere: si beve un’ autobotte di birra. E alle quattro del mattino, ubriaco perso, si presenta nella cucina dell’ Angel Hotel pretendendo di mangiare. Dopodiché, dice la versione ufficiale, Murdoch dà fuori di matto, e un addetto alla sicurezza dell’ albergo di nome Peter Grant viene abbattuto da un terrificante cazzotto. La faccenda sembra finita lì. La mattina, a sbornia smaltita, Murdoch viene convocato anche per il match successivo, due settimane dopo a Edimburgo contro la Scozia. Nel pomeriggio, ecco la retromarcia. Niente convocazione, anzi, la tourneé di Keith è finita. Murdoch viene giudicato indegno di indossare ancora la maglia nera con il ricamo della felce d’ argento, e gli consegnano un biglietto di solo ritorno per la Nuova Zelanda. Ma quell’ aereo Keith non lo prenderà mai. È salito su un altro volo, destinazione Australia. E si è fiondato a nord, verso le zone più desolate dell’ outback, l’ infinito interno del paese. Ha appena 27 anni, e per trent’ anni non si saprà più niente di lui. Fino a poche settimane fa, quando per rintracciarlo parte una caccia all’ uomo che riporta il suo nome sulle pagine di tutti i giornali dell’ Oceania. La polizia ha trovato, in fondo a una miniera abbandonata, il corpo di un aborigeno di vent’ anni, un emarginato abituato a vivere di piccoli furti. E si è scoperto che l’ ultimo furto della sua vita il ragazzo lo aveva compiuto in una baracca: la casa di Murdoch. Il vecchio rugbista inselvatichito è stato l’ ultimo uomo a veder vivo il ragazzo ucciso. La polizia nega di sospettare Murdoch del delitto, spiega di cercarlo solo come testimone: ma la caccia è imponente, seguita in diretta dai media. Si cercano le tracce di Keith tra fattorie, officine, piccoli stabilimenti dove ha lavorato per pochi giorni o poche settimane. Invano. Fino a che Murdoch non rispunta, dicendo imperturbabile ai poliziotti: “Non sapevo che mi stavate cercando”. Lo interrogano a lungo, poi lo lasciano andare. All’ uscita, quando una telecamera gli arriva troppo sotto il naso, la strappa di mano all’ operatore e la lancia lontano. E via, verso l’ immenso campo da rugby di sabbia rossa da cui non lo cacceranno mai.

(da “Repubblica” del 6 settembre 2001)

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